(18.6.20) Cosa accadrà alle grandi città dopo la pandemia? Sul magazine Style del Corriere della Sera abbiamo trovato un intelligente articolo di Samuele Cafasso che tratta delle trasformazioni urbane dopo il reset provocato dal lockdown emergenziale e dalla sua “lunga coda” che probabilmente si estenderà ai prossimi mesi. Vengono poste questioni, che abbiano già rilevato qui su RiavviaItalia settimane fa, con architetti e urbanisti che s’interrogano si come ripensare gli spazi urbani perché si rilancino come luoghi della creatività, reinventando (magari facendo in modo che sia meno sguaiata) la stessa “movida” che ne rappresenta il principio attivo. E’ stato emblematico, tra le diverse riflessioni che abbiamo pubblicato, l’intervento dell’architetto Maurizio Carta, in cui si parlava di “prossimità aumentata”. Nell’articolo di Style, che pubblichiamo qui sotto, è importante il riferimento dell’architetto Stefano Boeri al fatto di stabilire una connessione strategica per una rigenerazione sociale dei tanti piccoli centri delle aree interne, atta a stabilire una relazione stretta con i cittadini delle grandi città, che attraverso lo smart working, potranno drenare il flusso di spopolamento di quei piccoli comuni appenninici e alpini.
In un saggio pubblicato nel 2002, L’ascesa della nuova classe creativa, Richard Florida preconizzava un nuovo rinascimento urbano a opera di scienziati, ingegneri, architetti, scrittori e artisti. Diciotto anni più tardi, dopo aver effettivamente trasformato metropoli come Milano, Madrid e San Francisco, e dopo che un virus ha rivoluzionato tutte le nostre vite, la classe creativa si interroga su come saranno le città del futuro: valeva davvero la pena rinunciare al giardino in favore del cinema sotto casa e pagare un bilocale in città quanto una villetta monofamiliare appena fuori mano?
Se la morte delle metropoli è una notizia probabilmente falsa e sicuramente prematura – sono sopravvissute alla peste nera nel XIV secolo e all’influenza spagnola del 1918, ha scritto lo stesso Florida, e non si vede perché dovrebbero soccombere al Covid-19 – non è invece troppo presto per chiedersi come cambieranno le città del futuro.
Ci piacerà ancora viverci? Sapremo ripensarle per renderle di nuovo i luoghi dello scambio e della creatività? Nella migliore delle ipotesi, il Coronavirus potrebbe portarci in dono il riscatto delle piazze e delle vie pedonali. È la strada indicata da Stefano Boeri che, con il suo studio di architetti, ha ideato un manuale di prossemica cittadina: «Non dobbiamo parlare di distanziamento sociale, ma dei corpi» spiega.
Nella sua visione, la città del futuro sopravvive se si protende all’esterno. Nelle piazze, nelle strade liberate dalle automobili, dove «l’aria può circolare e il rischio di contagio è minore», dovrebbero spostarsi le attività che prima svolgevamo al chiuso: teatri, cinema, locali e negozi «che dovrebbero proiettarsi fuori, con dehors e spazi riscaldati». Per certi versi una città in un festival perenne.
Con i mezzi pubblici obbligati a evitare gli affollamenti e l’obiettivo di ridurre le automobili, biciclette e monopattini saranno una risorsa alternativa. Le città del futuro, ha spiegato su Vox l’urbanista Brent Toderian, saranno ripensate secondo il modello «15-minute neighbourhood»: ogni servizio essenziale dovrebbe essere raggiungibile a piedi o in bici. Saranno meno spettacolari, perché non serviranno luoghi iconici dove troppe persone possano fermarsi e sostare a lungo, ma spazi pubblici iperlocali e «unsexy», dice Toderian, a servizio di piccole comunità.
Lo smartworking diventerà sempre più una realtà, ci sposteremo di meno e riscopriremo quella vita di quartiere di cui già adesso vediamo qualche segnale, tra buon vicinato e incomprensioni. «Le ceste sospese, con gli alimenti raccolti per chi non se li può permettere, sono il segno di nuove reti solidaristiche e comunitarie» spiega Giovanni Semi, autore di Gentrification. Tutte le città come Disneyland?: «Ma c’è anche il vicino che telefona alla polizia per tre ragazzini che giocano in cortile durante la quarantena. La comunità protegge, sorveglia e a volte soffoca».
Saremo controllati anche dalle app di tracciamento e dai sistemi di controllo facciale: Richard Sennett, professore di Urban studies al Mit di Boston, ha parlato del rischio di «uno strisciante autoritarismo». E nelle città del futuro crescerà la privatizzazione degli spazi. Avere un giardino condominiale diventerà un lusso da difendere con alte barriere (di plexiglass o altro) pur di tenere lontani potenziali infetti.
«Se i teatri non potranno fare più 1.000 biglietti a spettacolo ma solo 100, i prezzi si alzeranno e molti potranno assistere solo in streaming. Resisteranno i ristoranti costosi in grado di avere pochi coperti e tavoli distanziati, mentre gli altri chiuderanno o si riconvertiranno all’asporto» spiega Semi. Così cresceranno le diseguaglianze e molti potranno uscire la sera solo una volta ogni tanto.
Andrà in crisi quella che definisce la seconda gentrification, alimentata dagli alloggi in affitto su Airbnb, dai ristorantini familiari e dai piccoli locali. La movida, come l’abbiamo conosciuta nei primi 20 anni del Duemila, potrebbe diventare un ricordo lasciando in eredità molti spazi vuoti, dai cinema d’essai alle librerie di quartiere.
Sul lungo periodo ci sarà chi preferirà lasciare il centro con le sue abitazioni troppo piccole a favore di case più grandi, dove ci sono una stanza in più per lavorare, una taverna per gli ospiti, magari un proiettore per farsi il cinema a casa, soprattutto un giardino privato. E allora le città del futuro potranno cambiare ancora in due direzioni. Potrebbero allargarsi ulteriormente per far spazio a villette monofamiliari, in una riedizione della dispersione urbana e dello sfruttamento del territorio che ha devastato l’Italia negli anni Ottanta.
Oppure, propone Boeri, «le 14 aree metropolitane potrebbero “adottare” i cinque mila piccoli centri sugli Appennini e sulle Prealpi oggi spopolati», con aiuti economici per la riqualificazione e la creazione di infrastrutture digitali che permettano a chi lavora nelle città di trasferirsi lì grazie al telelavoro. Città smart, insomma, dove tornare una volta ogni 15 giorni per la riunione con i colleghi, o per un festival in un parco, in un dialogo continuo con i loro satelliti.
Gli abitanti dei satelliti li chiameremo ancora cittadini?
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