(2.6.2020) Siamo convinti che le esperienze più significative per il riavvio del Paese, dopo questo reset pandemico, vadano rilevate nelle aree interne della Penisola, lasciate a loro stesse per troppo tempo ed ora a rischio abbandono. Più di metà del territorio nazionale è in quelle aree dislocate tra le pieghe alpine e appenniniche, in luoghi splendidi in cui risiede la migliore biodiversità, ecosistemi di alto valore paesaggistico e culturale. Uno di questi è Alfano, in provincia di Salerno, nel Cilento, uno di quei comuni dove ormai risiedono solo anziani, mentre i giovani sono migrati altrove per cercare lavoro e formazione. Ma a volte ritornano… In questo intervento di Raffaele Giovine pubblicato qualche giorno fa su Labsus si descrive una buona pratica emblematica (come quelle che conduce Urban Experience con esplorazioni partecipate, mappature e qr-coding da anni) che rilanciamo molto volentieri.
Nel comune di Alfano abitano 1004 abitanti: è uno di quei comuni delle aree interne del nostro Paese dove i collegamenti con la città sono problematici, le strade sono tortuose e maltenute e con pochi servizi essenziali, ma al tempo stesso c’è ricchezza di tradizioni e di risorse ambientali.
Il Comune, elemento centrale di questa piccola comunità, negli anni ha cercato di attrezzare il paese con nuove strutture pubbliche, piscina e palestra comunale, biblioteca, museo dell’agricoltura, e offrire nuove opportunità come il gemellaggio con Zermatt, consentendo, soprattutto ai ragazzi, di intraprendere nuove esperienze lavorative all’estero. Tutto questo, però, ha riscontrato particolari difficoltà in termini di gestione e introiti per quanto riguarda le attrezzature pubbliche, con la conseguente chiusura di alcune e la mancata fruizione di altre e di emigrazione dei giovani verso la città svizzera, fiorente di opportunità.
E’ in quest’ottica che l’amministrazione ha voluto investire sui giovani, attivando il Programma Ben-Essere Giovani finanziato dalla Regione Campania; il tentativo è di coinvolgerli in un percorso di formazione che offra loro la possibilità di acquisire competenze, di fornire stimoli e strumenti per conoscere e non abbandonare il proprio paese.
Nell’ambito del progetto “Alfano Futuro – key competences to open the future”, il laboratorio “Matrici identitarie: raccontare per reinventare luoghi e comunità” è tenuto da Aste & Nodi – Agenzia informale di sviluppo locale. Il progetto vede la partecipazione di venti giovani, studenti universitari che studiano a Napoli o a Salerno e tornano ad Alfano nel weekend e ragazzi che hanno abbandonato la scuola e che non hanno ancora un lavoro, coinvolti, tramite un avviso pubblico, con l’obiettivo di fornire una lettura diversa per scoprire il Comune dove vivono da sempre.
Dalla mappatura delle opportunità alla stipula del Patto
Come direbbe l’antropologo Ulf Hannerz, se la città è «quel luogo dove si trova una cosa mentre se ne cerca un’altra», così è stato ad Alfano: si è partiti da un laboratorio che aveva l’obiettivo di mappare il territorio e si è arrivati alla stipula di un Patto di collaborazione tra il gruppo di giovani e l’Amministrazione comunale.
Il primo passo è stato un world café tra i ragazzi, in cui si è provato ad iniziare a dialogare sul “paese”, provando a cogliere sia le prime potenzialità del luogo sia quelle trasformative proposte dai partecipanti. L’intento è stato quello di provare a osservare il territorio con una lente diversa da quella sempre utilizzata. Il confronto, infatti, ha prodotto fin da subito un vortice di idee e risorse mai pensate prima, come quella della piccola Simona, bambina di 7 anni, che ha partecipato al laboratorio e che avrebbe voluto piantare un frutteto in un giardino abbandonato del comune. Oltre alle idee sono emerse tante tradizioni e risorse locali, dalle paddoccole, piatto tipico alfanese, e la sua sagra, al lavoro dell’intreccio del vimini, dai prodotti tipici locali al patrimonio naturalistico e paesaggistico riconosciuto nella sentieristica e nel fiume Faraone. Non sono mancate, però, le riflessioni su quanto invece di chiuso e abbandonato fosse presente nel comune: le attrezzature comunali chiuse per cattiva gestione; l’ex mulino; l’osservatorio sul fiume in disuso e le varie aree ristoro; parchi giochi e percorsi di trekking presenti lungo il corso del fiume Faraone. Tutto ciò in totale abbandono. Questo ha suscitato da parte dei ragazzi una grande perplessità e sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Per scoprire, invece, quanto di bello ha da offrire questo territorio, le prime ipotesi sulle potenzialità dello stesso sono state messe a verifica con una serie di camminate di quartiere, per scoprire tutte le tradizioni, le ricette locali e tutti quegli spazi chiusi e abbandonati individuati durante il world cafè.
Entrare in contatto con i luoghi e le tradizioni ha evidenziato il rapporto strettissimo che c’è tra territorio e comunità. Il senso, infatti, era provare a costruire, con una vista d’insieme di tanti contenitori e di tanti saperi, intrecci utili a far scattare quella scintilla rigenerativa che lega qualcosa che si può fare ad uno spazio di scarto della città a qualcosa che manca.
Un territorio ricco di patrimonio pubblico e privato dismesso
Provare a vedere come risorsa tutti quegli ex qualcosa, scarti della veloce trasformazione della società, era infatti una delle direttrici del laboratorio, una dorsale di ragionamento accentuata in un’area interna caratterizzata da tantissime abitazioni inabitate e da tantissimi B&B in cerca di turisti, frutto di una fallimentare politica di sviluppo delle attività ricettive, che ha favorito esclusivamente il proliferare di nuova edilizia in aree di pregio. Un segno visibile negli ultimi piani dei palazzi ancora non finiti.
Un non-finito da vedere come risorsa da riempire col potere dei saperi locali e con le competenze degli abitanti. Il potenziale trasformativo di questi luoghi emerge quando cresce la consapevolezza dei soggetti di una comunità di possedere capacità e risorse inespresse e di metterli in relazione con propri bisogni e le proprie esigenze.
Le ipotesi sono diventate sistema: schedature, categorizzazione delle scoperte, note. Una vera e propria mappatura collaborativa delle opportunità del territorio. Le tracce di una storia di comunità messe prima su una mappa cartacea, specchio del punto di vista dei giovani, e successivamente tradotta in formato digitale. Una delle tracce è stata provare a connettere l’analisi delle potenzialità fisiche con lo spazio pubblico del web tramite l’operazione di qr-coding.
Riconoscersi nei luoghi a partire dalla memoria collettiva
Il tentativo di costruire un riconoscersi nel luogo in cui si vive a partire dalla memoria collettiva è un’operazione fondamentale ma difficile da effettuare, soprattutto nei piccoli comuni, solitamente visti da chi ci vive come luogo senza opportunità e da cui andare via. Nei vari step di lavoro, spesso è emersa da parte dei ragazzi la sfiducia verso la politica e verso se stessi, desiderosi di cambiamento ma incapaci di individuare i propri bisogni e di metterli a sistema con le risorse del territorio individuate.
Inizialmente i loro dubbi, le loro esigenze e passioni hanno trovato casa al primo piano del municipio di Alfano. Un primo passo dell’amministrazione di destinare ai ragazzi una stanza, seppur tutta impolverata, alle attività del progetto. Questa stanza è diventata il loro creative living lab, un primo luogo dove sentirsi a casa, discutere, dibattere e co-progettare, dove scegliere insieme quale luogo rigenerare e per farci cosa. L’obiettivo è stato quello di cercare, trovare e sperimentare i modi di vivere della propria comunità e migliorare la consapevolezza delle proprie forze e dei propri limiti hanno fatto sì che i ragazzi si sentissero soggetti attivi di questo cambiamento.
In quella stanzetta si sono mossi i primi passi di dialogo tra i ragazzi e l’amministrazione comunale, si sono inizialmente selezionate le proposte candidabili e si è scelto di comune accordo di iniziare le prime azioni di rigenerazione e di riattivazione dell’ex scuola media, abbandonata da pochi anni in virtù dei nuovi piani di dimensionamento scolastico.
La scuola media era un luogo in cui tutti i partecipanti al laboratorio avevano studiato. Un passo indietro di anni in pochi secondi: una foto ricordo all’ingresso, gli armadietti, la campanella che ancora suona e i bambini di allora salgono in cattedra. È l’ora della partecipazione, di mettere in pratica e rendere concreti tutti pensieri e le idee che sono venuti fuori e di farlo soprattutto insieme.
Il luogo pieno di ricordi e la possibilità finalmente di poter “fare” ha suscitato nei ragazzi alcuni interrogativi: «Da cosa iniziamo?», «Come lo facciamo?», «Chi saranno i gestori?», «Di chi sarà la responsabilità?». Una serie di questioni che hanno messo in discussione anche la stabilità di un gruppo ormai ben solido. Alcuni hanno deciso di tirarsi indietro, altri hanno cercato di trovare delle risposte, ben consapevoli del fatto che, una volta finito il laboratorio, avrebbero dovuto proseguire da soli con le loro gambe.
Quando il lavoro si fa duro, i duri cominciano a giocare
Per testarsi sul piano della responsabilità e dell’organizzazione, innanzitutto, i ragazzi hanno definito un programma di prime azioni di risistemazione dell’ex scuola: un calendario di incontri settimanali, stabilendo i compiti da assegnare ad ognuno, chi si occupa dell’organizzazione delle pulizie, chi di chiamare i tecnici dell’amministrazione per piccoli lavori di manutenzione e chi della spesa dei materiali mancanti.
Così facendo, in poche settimane, alternando giorni di assenze e difficoltà di comunicazione a giorni di piena attività e collaborazione, quel luogo ha cominciato, e continua oggi, a prendere forma: la sala professori è diventata l’agorà dove decidere insieme le attività, la prima classe è adibita a cineforum, la seconda è la stanza della musica, mentre la terza una sala studio.
In contemporanea, superati i dubbi iniziali e la sfiducia verso l’inerzia dell’amministrazione, soprattutto grazie la vicinanza della giovane sindaca Elena Gerardo, i giovani, diventati ormai attivisti, si sono cimentati nell’immaginare l’atto di governance che permettesse la co-gestione dell’ex-scuola. La costante del processo è stata immaginare un atto di corresponsabilità tra attivisti e amministrazione, capace di non creare quel meccanismo in cui i gestori diventano gli unici responsabili che devono affrontare da soli tutte le problematiche connesse alla gestione di uno spazio. Questo sarebbe stato un ostacolo insormontabile, soprattutto, per dei giovani ed inesperti gestori.
(continua)
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