(25.6.2020) Leggiamo spesso CheFare e per questo ne rilanciamo gli interventi più acuti, quelli che spiccano per lucidità. Questa volta abbiamo Alex Giordano, una delle menti più fervide delle culture digitali e impegnato (sia con Societing sia con RuralHack) da tempo in un’innovazione sociale sostanziale, rivolta alle aree interne (un ambito su cui abbiamo scritto spesso). Già con la citazione di Donna Haraway che seguiamo da almeno venticinque anni, dagli albori del cyberpunk, ci invita a porre uno sguardo disruptive su un contesto che necessita del nostro coraggio creativo. In questo passaggio ci è venuta voglia di abbracciarlo: “C’è una soluzione possibile per non capitolare in questo mondo danneggiato? Secondo la filosofia la soluzione è interagire: stare da soli vuol dire soccombere alla disperazione o ad una fumosa speranza, praticare “simpoiesi” è invece un atteggiamento di buon senso, capace di renderci ontologicamente creativi.”. Sì, c’è bisogno anche di trovare nuove parole (il glossario di Donna ci viene in aiuto) per affrontare queste condizioni inedite. Noi ci siamo messi in gioco e con RiavviaItalia Live intendiamo confrontarci sul campo, portando il web a terra, con una proposta particolare di conceptconcert: Entanglement (in cui lanciamo la nostra tag quantica, molto vicina a quelle che evoca Alex). Ci combiniamo? L’intervento di Alex, che trovi qui sotto, ha la sua versione più estesa, con link, su questa pagina di CheFare.
“Lo Chthulucene […] deve raccattare la spazzatura dell’Antropocene, la tendenza allo sterminio del Capitalocene, e sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili”.
(Donna Haraway)
We are in trouble!
In questi mesi di preoccupazione collettiva per un virus di cui si conosce ancora troppo poco e che ci sta rivoluzionando il quotidiano, vengono in mente le parole della filosofa Donna Hardaway che ci invita a pensarci legati ad un’infinità di creature e ci ricorda che con-divenire vuol dire che enti ontologicamente eterogenei diventano ciò che sono solo in un processo relazionale. Nature, culture e soggetti non preesistono all’intreccio, ma divengono insieme incessantemente.
C’è una soluzione possibile per non capitolare in questo mondo danneggiato? Secondo la filosofia la soluzione è interagire: stare da soli vuol dire soccombere alla disperazione o ad una fumosa speranza, praticare “simpoiesi” è invece un atteggiamento di buon senso, capace di renderci ontologicamente creativi.
In accordo con questi principi di fondo noi del gruppo di ricerca-azione Societing, con la task force RuralHack dedicata ai temi dell’innovazione nel foodsystem, stiamo facendo da qualche anno un lavoro non SU ma CON le comunità rurali, creando ponti tra ricercatori, scienziati e i vecchi maestri della terra; tra hacker, artisti e contadini; tra realtà rurali delle aree interne e centri metropolitani. L’ipotesi che stiamo analizzando e sperimentando è una via mediterranea di sviluppo, che considera innovazione tecnologica e sociale come parte dello stesso processo.
Nella nostra idea di modello mediterraneo le tecnologie non sono per forza causa di alienazione ed allontanamento dalla tradizione, dalla ruralità, dall’artigianalità della produzione ma possono diventare il mezzo per immaginare insieme ai giovani, agli artigiani, alle piccole imprese, agli imprenditori sociali, alle start up, alla ricerca 4.0, alle istituzioni, …un senso diverso della produzione, del lavoro, dell’ambiente e della società diventando, quindi, la chiave dello sviluppo sostenibile, a tutela della biodiversità, dell’ambiente e delle persone.
In questo modello vengono privilegiati sistemi aperti (open source): open software, open data e anche ricerca partecipata sono modalità che, a nostro avviso, favoriscono processi socio-economici maggiormente sostenibili e redistributivi. L’idea è che i singoli e le comunità possano sviluppare insieme nuove forme di valore.
Con questi sistemi si interviene sulla filiera del cibo modificando la logica di base, partendo dall’idea che il cibo da commodity debba tornare ad essere commons cioè bene comune. Questo è un passaggio-chiave che non si acquisisce con l’apposizione di etichette o attraverso qualche forma di certificazione ma appartiene al sentimento condiviso e si conferma con le scelte che i consumatori fanno quotidianamente, smettendo di essere agiti e tornando ad essere liberi cittadini che si informano e decidono in autonomia. Come ci insegna la storia della Dieta Mediterranea, che proprio nelle zone in cui principalmente operiamo (il Sud Italia, la Campania, Napoli, il Cilento) è nata ed è stata formalizzata1, è una sensibilità che appartiene alla cultura delle persone, ai legami sociali, alla cura per il paesaggio e per le risorse naturali.
Per altro è ormai chiaro come il sistema alimentare e la produzione agricola siano strettamente collegati con i più grandi problemi che il mondo si trova ad affrontare: cambiamento climatico, rifiuti, sicurezza alimentare, qualità dell’acqua e del suolo, perdita della biodiversità, fame da una parte del mondo e, scusatemi se sono proprio io a dirlo, obesità dall’altra. Sono tutte problematiche legate al cibo, alla sua produzione, alla sua trasformazione ed alla sua distribuzione.
Nei diversi tentativi di far fronte a queste problematiche le soluzioni scientifiche, da una parte, e le politiche pubbliche, dall’altra, spesso non tengono in debita considerazione la complessità. Inoltre i processi di conoscenza che guidano cambiamenti, trasformazioni e innovazione sono troppo spesso ideati, prototipati e sviluppati distanti dai contesti ai quali si rivolgono. Vale, di sicuro, per i tentativi di applicazione delle tecnologie 4.0 alle PMI e anche a settori molti legati alla tradizione come l’agricoltura.
E c’è anche un altro aspetto critico da evidenziare: l’innovazione che cancella il passato non ha memoria dell’identità dei luoghi e dei contesti nei quali si inserisce.
Come dice il mio amico/maestro Adam Ardvisson dalle pagine del suo ultimo libro Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale, il progetto moderno è stato quello di sostituire l’economia industriosa con l’economia industriale, ovvero un’economia che ruota intorno alle grandi organizzazioni con grandi risorse a disposizione.
Importante tenere in considerazione che con la digitalizzazione questa industriosità sta tornando e sta diventando centrale per l’economia.
Inoltre la necessità di cambiamento, insieme alla perdita di riferimenti, ci stanno portando verso il futuro industrioso dell’economia digitale. “I nostri tempi sono contrassegnati da un pessimismo dell’intelligenza e un ottimismo della volontà -scrive Adam – . Il nostro pessimismo intellettuale si manifesta nel fatto che nessuno sembra avere un’alternativa seria alla difficile situazione in cui ci troviamo, eppure il nostro cocciuto ottimismo fa sì che, nonostante l’assenza di alternative, continui a esserci un desiderio generale di cambiamento. Cambiare il mondo è diventata la parola d’ordine di una nuova generazione”.
Serve un nuovo paradigma
“L’impatto sociale, economico e politico dell’estrazione di valore è immenso. Prima della crisi finanziaria del 2007, la quota di reddito dell’1% più ricco della popolazione degli Stati Uniti crebbe dal 9,4% nel 1980 a uno sconcertante 22,6% nel 2007. E la situazione continua a peggiorare. Dal 2009 le disuguaglianze sono cresciute ancor più rapidamente di prima del crollo finanziario del 2008”2.
La nostra economia ha generato disuguaglianze enormi: pochi attori si trovano in una posizione dominante che determina un potere negoziale che incide in modo forte sulle dinamiche dell’economia, sulle scelte politiche generando importanti conseguenza socio-culturali.
L’attuale paradigma del capitalismo estrattivo a partire dagli anni ’40 condiziona pesantemente anche il sistema di produzione, trasformazione, distribuzione e acquisto del cibo. La filiera del foodsystem è molto lunga – con interazioni forti tra il livello internazionale, quello nazionale e quello locale – e gli orientamenti che la guidano sono sempre più centrati sulle logiche prepotenti del mercato.
Nel paradigma attuale anche il potenziale dell’innovazione tecnologica 4.0 diventa un acceleratore dell’agricoltura convenzionale invece di diventarne l’antidoto
Nel paradigma attuale anche il potenziale dell’innovazione tecnologica 4.0 diventa un acceleratore dell’agricoltura convenzionale invece di diventarne l’antidoto, come viene troppo semplicisticamente venduto dallo storytelling mainstream. Si dice, infatti, che le tecnologie possano accelerare la creazione di un sistema alimentare più sostenibile ed equo. In realtà, è d’obbligo l‘uso del condizionale: le tecnologie (anche quelle 4.0) potrebbero aiutarci nel migliorare il sistema alimentare, potrebbero garantirci alimenti più sani e cibo sicuro, potrebbero avere effetti positivi su tutta la catena alimentare e favorire la gestione di quei grandi problemi che si stanno presentando come gravi questioni, tutte aggrovigliate l’una all’altra.
Potrebbero! Ma non all’interno dell’attuale paradigma.
Il cambio di paradigma che auspichiamo non è certamente voluto con l’intento di tornare indietro, ad un passato rurale, a sua volta narrato sulla base di un immaginario bucolico che non corrisponde alla vita di fatica e stenti che in molte campagne tante famiglie hanno dovuto affrontare, vedendo nelle città e nell’abbandono della terra la loro emancipazione e il sogno di una vita migliore.
L’ispirazione del diverso paradigma nel quale far crescere occasioni di sviluppo sostenibile ci arriva dai principi della Dieta Mediterranea che fonda i suoi valori sull’identità e la comunità, sulla salute e la cura del territorio, sulla biodiversità e la conservazione del paesaggio, sulla condivisione e il riconoscimento delle diversità, sulla tradizione e la creatività. D’altra parte è proprio per tutto questo che l’UNESCO l’ha riconosciuta Patrimonio Immateriale dell’Umanità3.
Questi valori, secondo noi, possono condizionare l’introduzione e l’utilizzo delle tecnologie a partire da quelle del 4.0 (Big Data, IoT, intelligenza artificiale, ecc.) e orientare l’innovazione digitale diventando la chiave di senso dello sviluppo sostenibile, a tutela della biodiversità, dell’ambiente e delle persone.
Il ruolo della ricerca aperta. Si, ma in concreto?
I processi di cambiamento, trasformazione e innovazione sono scintille che possono partire dall’ispirazione individuale, da istanze collettive; da iniziative più o meno strutturate e più o meno condivise a livello istituzionale. Non ci sono regole generali e ogni attore ha una sua potenziale funzione di innesco, di supporto, di validazione, di amplificazione, … dei processi di innovazione.
Noi, in questi anni, abbiamo fatto partire i nostri percorsi sperimentali in tutti i modi possibili dando continuità, quotidianamente, ad un lavoro di tessitura simile a quella di un artigiano che ricava sapere da ogni intervento e in ogni fase del processo operativo e, con un adattamento continuo, agisce con l’intento del miglioramento funzionale ed estetico. Un salto di scala è stato fatto collaborando con l’Università Federico II° di Napoli, potendo svolgere anche un ruolo da abilitatori della trasformazione digitale; inoltre è stata l’occasione per dare sistema alle riflessioni e alle analisi fatte sui processi di innovazione sociale e tecnologica.
Produrre nuove forme di intelligenza sociale e modalità di scambio, attraverso occasioni e dispositivi che mettono in relazione le intelligenze delle comunità
Per accompagnare i processi di cambiamento e con l’intento di studiare, mettendola in pratica, questa nostra idea di modello mediterraneo, con il Programma di ricerca-azione Societing 4.0 e con la sua task force Rural Hack, stiamo sperimentando una gamma di strumenti e metodi per l’innovazione dell’agricoltura, in grado di mappare problemi e soluzioni attraverso diverse forme tra cui metodi digitali, studi comparativi e meta-analisi. Questi metodi possono produrre nuove forme di intelligenza sociale e modalità di scambio, attraverso occasioni e dispositivi che mettono in relazione le intelligenze delle comunità (intelligenze umane, intelligenze artificiali, intelligenze collettive) attraverso eventi di networking degli agricoltori, cluster di agricoltori, fattorie dimostrative, feste popolari, test dimostrativi e consultazioni; e attraverso una moltitudine di spazi informali in cui agricoltori e cittadini possono interagire con il sistema dell’agricoltura (compresi veterinari, consulenti, commercianti di sementi e mercati del bestiame).
Il ruolo di ponte che Societing 4.0 e Rural Hack agiscono costantemente ha anche favorito l’incontro tra le imprese del territorio (comprese quelle agricole) e il sistema della conoscenza prodotta all’interno dell’Università. A questo fine il nostro team di lavoro ha mappato, prima di tutto, i processi di ricerca in corso presso i vari Dipartimenti dell’Università Federico II° di Napoli. Questo è stato il modo che ci ha consentito di conoscere (e far conoscere) una parte dell’offerta, cioè le soluzioni tecnologiche che l’Università produce e che possono essere proposte a imprenditori e comunità. Per classificare le attività di ricerca in corso presso i vari Dipartimenti universitari sono stati definiti dei topic che ci consentono di sapere oggi che, per esempio, alla parola “pomodoro” corrisponde l’elenco di tutti coloro che, all’interno dell’Università, lavorano sul pomodoro: da Scienze economiche, che si occupa del management delle esportazioni, a Scienze dei materiali che magari dalle bucce ricava una bioplastica.
In più grazie alla lungimiranza di una Camera di Commercio particolarmente illuminata come quella di Salerno che ha siglato un protocollo reale con l’Università (non uno scambio di loghi, ma una progettualità profonda e condivisa fatta di duro lavoro sul campo e molto orientata ad obiettivi tangibili) ci ha permesso di incontrare una moltitudine di piccoli o piccolissimi imprenditori delle aree interne della Campania, che sono molto distanti dalle logiche del 4.0, e questo ha reso necessario l’elaborazione di un metodo per affrontare con loro il tema e cominciare a immaginare cambiamenti organizzativi in chiave tech.
In questo caso la strategia di penetrazione è stata lo storytelling (al contrario) cioè l’ascolto dei loro racconti, raccolti anche attraverso video-interviste dalle quali è sempre emerso chiaramente come la storia delle imprese sia legata, in modo forte, alla storia e alle scelte fatte dall’imprenditore. Questi incontri sono stati preziosi perché hanno consentito al gruppo di lavoro di capire e approfondire, attraverso domande specifiche, quali fossero i problemi ed eventualmente far partire direttamente una proposta progettuale di innovazione tecnologica. Questo sistema pull ha funzionato, tanto da consentire la raccolta di molte belle storie di vita e di impresa e di idee di possibili soluzioni, oltre a darci la possibilità di cominciare ad alfabetizzare un pubblico ancora distante dai temi della rivoluzione 4.0. su big data, IoT, intelligenza artificiale, ecc.
(continua su CheFare)
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