Viaggiamo dentro noi stessi quando ci ritroviamo in luoghi che ci ricordano cosa cerchiamo…
C’è una frase di Tolstoj che può ben definire il principio attivo che sta a monte dei processi del performing media storytelling di Urban Experience: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”. È netta, precisa ed evocativa. Fa capire quanto sia importante essere consapevoli della propria identità e allo stesso tempo cercare di misurarci con il mondo tutto, senza rimanere prigionieri nella propria memoria, per liberare un’energia d’innovazione culturale decisamente glocal.
La differenza dallo storytelling di cui tanto ormai si parla è nell’ibridazione narrazione-azione, facendo direttamente “parlare” i territori, creando le condizioni abilitanti, ludiche e partecipative, per mettersi in sintonia con il genius loci mentre lo si esplora o lo si assaggia, operando su format di performing media che vanno oltre il dato di rilevazione delle storie per bensì rivelarle nelle geografie che si abitano, sia stabilmente sia in via temporanea.
È questo uno dei temi caldi per quella ricerca d’innovazione territoriale che attraverso i format di performing media trova il suo fulcro nei walkabout, le “conversazioni nomadi” che grazie ai sistemi whisper-radio permettono di sollecitare un confronto “connettivo” mentre si passeggia (garantendo distanziamento fisico e valorizzando quello sociale), in un flusso peripatetico espanso in una diffusione radiofonica partecipativa (diffusa, spesso, in streaming su web-radio) in giro per le città e i territori. Sciamando per strade e sentieri si cerca la sintonia giusta con le piccole storie delle comunità, in un rapporto fisico, performativo e connettivo, attivando una partecipazione senziente, ludica e sodale: resiliente.
Si tratta di “accendere lo sguardo” quando si esplora l’ordinario urbano, attraversando luoghi che spesso si è convinti di conoscere a fondo. Una delle chiavi che adottiamo è quella di “girare la zolla”, dissodare, se non “scavare” per cogliere le stratificazioni storiche, sollecitando una memoria attiva che operi con il nostro metodo dello sguardo partecipato. E’ di questo che da anni trattiamo per accendere i processi partecipativi per l’innovazione sociale e la rigenerazione urbana (come diciamo in questo video, quando ancora usavamo il termine “radiowalkshow”) per rivelare, e non solo rilevare, i paesaggi umani degli ecosistemi urbani.
Buona parte di questa attività trova una sua restituzione nel web, attraverso i geoblog che definiamo anche mappe esperienziali. Le mappe interattive (inventate da noi, nell’ambito delle Olimpiadi Torino2006, prima di googlemaps, lo testimonia questo articolo) rappresentano la peculiarità di scrivere storie nelle geografie, lasciando l’impronta, taggando, esperienze di esplorazione perché possano tracciare itinerari da ripercorrere in operazioni anche orientate verso il turismo esperienziale e, in senso lato, in relazione a ciò che riguarda l’edutainment (su cui abbiamo scritto diversi saggi, a partire dal 1997, come Educare On Line e Imparare Giocando) e più in particolare su ciò che definiamo l’Apprendimento dappertutto.
Questi particolari processi che rappresentano l’insieme delle diverse modalità inscritte nella strategia del performing media storytelling possono creare una filiera creativa che dai walkabout passa ai geoblog, alla videoproiezione nomade (quando alle conversazioni peripatetiche si combina una videoproiezione itinerante e alimentata a batteria, per ritagliare visioni sui paesaggi urbani) e poi concepire un’attività di segnaletica performativa con particolari targhe segnaletiche basate sull’uso di mobtag (detti anche QR-code) che linkano a pagine web in cui trovare (e magari ascoltare) storie inscritte nelle geografie, in prossimità dei luoghi dove sono state raccolte. Si cammina per i luoghi e si pesca dal cloud i riferimenti che sollecitano l’attenzione e invitano a porre lo sguardo su alcuni dettagli. È un buon modo per rilevare informazioni-emozioni mentre si esplora un territorio e così rivelare il genius loci espresso dalle voci degli abitanti.
Il performing media storytelling comporta delle azioni performative (condizioni che trovano un background nelle sperimentazioni sul “paesaggio sonoro” e in radiofonia, come quelle per Audiobox-RadioRAI o in quelle teatrali di Koinè o nei Silent Play di Carlo Presotto e altre drammaturgie acustiche) di coinvolgimento diretto dei portatori di storie in una stretta interazione con i nuovi media interattivi e mobili di per sé performanti.
In tanti oggi parlano di storytelling delegando al mero uso dei social network la funzione di mero riverbero web di ciò che accade nell’esplorazione partecipata, ignorando la potenzialità dell’azione diretta, progettata secondo principi di urbanismo tattico se non, in alcuni casi, articolata drammaturgicamente. Qui si tratta di andare oltre il dato automatico dello sharing su facebook o twitter (o instagram) per attivare processi di coscienza partecipativa, fisica ed empatica, che sappia giocare con i media interattivi e mobili in una condizione esperienziale con i “piedi per terra e la testa nel cloud”, coniugando web e territorio, il reale con il digitale (una condizione generale che va ben oltre il virtuale verso cui va posta un’attenzione specifica).Il performing media storytelling comporta questa scommessa culturale: trovare il modo per mettere in relazione memoria-reti-territorio attraverso l’azione esplorativa, sollecitata da quelle particolari condizioni abilitanti che possano esplicitare il rapporto con tecnologie da usare (inventando valori d’uso creativi) fino a farle diventare linguaggi a tutti gli effetti. E conseguentemente modalità performanti per sollecitare reciprocità con gli spettatori-cittadini, secondo i principi del cosiddetto Audience Development per cui s’intende lo sviluppo progressivo dello spettatore attivo, ambito su cui si è operato dagli anni Novanta, in diversi progetti, sia con l’AGIS a Torino sia con la Biennale di Venezia, etc.
E’ attraverso la condizione abilitante espressa da questi format di performing media che è quindi possibile attivare processi partecipativi più senzienti e dinamici, promuovendo un salto di qualità verso dei cantieri di co-progettazione culturale (vedi qui l’esperienza di PStories a Pisticci) per lo sviluppo glocal e la resilienza urbana. Si, è proprio dando forma ad un pensiero globale – inscritto negli scenari della radicale transizione in atto, contemplando un ripristino dei rapporti originari tra natura e cultura – innervato nell’azione locale, rilevando le peculiarità dei territori e rivelando genius loci, che si può attivare uno storytelling sostanziale e non solo superficiale (con il surf sui social) capace di fare e pensare innovazione territoriale, associando alle esplorazioni momenti di elaborazione con il design thinking come gli Experience Lab. Una strategia che contempla l’innovazione sociale centrata sulla partecipazione attiva e l’inclusione, secondo i principi della smart community e il design for all (rivolto all’accessibilità universale), come nel progetto RomaVistadaiCiechi. Una ricerca che va fuori e dentro sé alla ricerca delle matrici sia del proprio essere sia del divenire sociale, esplorando Paesaggi Umani e praticando esercizi creativi di resilienza e di arthinking (l’arte del pensiero dell’arte), rigenerando quei contesti culturali ad alto rischio autoreferenziale.
È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. (Fernando Pessoa da “Il libro dell’inquietudine”)
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