Era il 1934 quando il premio Nobel Simon Kuznets si spinse ad affermare: «Il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto da una misura di reddito nazionale». Trascorso quasi un secolo, continuiamo a misurare il successo economico di una nazione attraverso un indicatore – il PIL (prodotto interno lordo) – che considera il valore come sterile sommatoria di beni e servizi prodotti da un sistema economico, senza nulla esprimere circa l’equità dello sviluppo in termini di distribuzione delle risorse tra ricchi e poveri, né circa la sostenibilità in termini di costi ambientali di produzione e consumo, né in termini di benessere e felicità dei cittadini nel lungo periodo.
In questo piccolo mondo, sospeso nello spazio infinito, c’è un Paese piccolo piccolo, a forma di stivale: il suo punto più a nord, tradizionalmente individuato presso la Vetta d’Italia sulle Alpi Aurine (Alto Adige), dista soltanto 1.291 chilometri da quello più a sud, Punta Pesce Spada sull’isola di Lampedusa. Eppure su questo piccolo pezzo di terra si è accumulata nei secoli una straordinaria varietà di esperienze umane che hanno lasciato tracce di queste storie, numerose e diverse, che sono diventate paesaggi, tradizioni, culture e opere d’arte (l’Istat ci aiuta a contare 4.026 musei, gallerie e collezioni, 293 aree e parchi archeologici e 570 monumenti e complessi monumentali). Esperienze di comunità che sono diventate città, paesi, borghi e villaggi: una nazione fatta di piccoli centri abitati, di paesaggi scarsamente attraversati, di tradizioni poco conosciute ma ben conservate. Un immenso patrimonio diffuso che rende l’Italia il “Bel Paese”, ovvero un Paese fondato sul capolavoro!
Purtroppo percepirsi belli non basta: essere dotati di antichi patrimoni ereditati dal passato, da sfruttare parassitariamente come “pozzi petroliferi” nella logica della rendita di posizione, non genera valore contemporaneo. Occorre decidere di puntare strategicamente su fattori finora ritenuti “inusuali” o “non fruttiferi” come la cura dei beni comuni, la manutenzione dei paesaggi e della qualità urbana, il benessere e la felicità dei cittadini, facendo leva sul valore delle relazioni, sulla dimensione sociale dolce delle comunità locali, sulla qualità della vita nei territori di provincia, sull’entroterra, sull’agricoltura e sull’artigianato di eccellenza, sul “made in Italy”, sulle imprese culturali e sulle industrie creative.
La Convenzione di Faro (tristemente ancora non ratificata nel nostro Paese), partendo dalla consapevolezza che il concetto di “patrimonio culturale” è rimasto spesso ampio e labile, introduce la nozione di “comunità di eredità”, ovvero “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” (art. 2).
Su questa base, penso alle “piccole patrie” di Olivetti e mi chiedo: perché non immaginare di ripartire dal piccolo, dal locale, dall’eccellenza vera di questo nostro straordinario Paese, creando dei veri e propri Laboratori di economia della bellezza?
Il lockdown disegna un tempo immoto, ma il futuro non aspetta. Dobbiamo apprendere traiettorie nuove e regole nuove, che vanno disegnate oggi.
(Federico Massimo Ceschin)
Clicca qui per saperne di più →
Credo sia fondamentale tradurre il valore della bellezza in termini economici, soprattutto pensando all’impatto a lungo termine sulla vita quotidiana delle persone, perché una persona che ritiene di avere un diritto alla bellezza è una persona che fa valere attivamente i propri diritti di cittadinanza.
@federico massimo ceschin sono stati individuati dei rilevatori di valore, #benchmark, per definire l’impatto economico sul PIL? (in attesa di riconfigurare questo assetto tarato fondamentalmente sulla produttività industriale).