Rigenerare: non rammendare, introdurre doni

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Abbiamo letto con attenzione e proiezione sodale questo testo di Massimo Pica Ciamarra pubblicato su pagina21.eu e lo rilanciamo, anche per sollecitare nel forum quel confronto connettivo di cui sentiamo il bisogno, per smarcarci dai soliti social media in cui disperdiamo neuroni.

Massimo Pica Ciamarra è un architetto importante che ha segnato la storia dello sviluppo architettonico con una sensibilità prammatica e al contempo visionaria e rivolta all’innovazione digitale. E’ su quest’ultimo aspetto che l’ho conosciuto nel cantiere napoletano della Piazza di Fuorigotta alla fine degli anni Ottanta per inaugurarsi dei mondiali di calcio del 1990.  Un’area vasta, intorno allo Stadio San Paolo, con tre torri (Torre dell’Informazione; Torre della Memoria; Torre del Tempo e dei Fluidi) che accoglievano videowall, sistemi laser e una grande meridiana. Un colpo d’occhio fenomenale. Gli siamo grati di condividere questa sua riflessione articolata in cui smonta una delle strategie urbanistiche più criticabili: quella dello zoning che definisce lucidamente “cultura degli egoismi”.

 

Fra le felici rigenerazioni urbane ce ne è stata una 2.500 anni fa. Alla guida di Atene dal 461 a.C., Pericle avviò un vigoroso progetto edilizio per la città. Nel 447 iniziò la costruzione del Partenone ultimato nel 432. L’anno successivo, nel Discorso agli Ateniesi, Pericle spiegò il senso di trent’anni anni del suo agire: «Qui ad Atene noi facciamo così». Quella di Atene è una rigenerazione antica, emblematica del rapporto virtuoso fra forma della città, benessere e democrazia. La mutazione culturale dell’era di Pericle produsse un salto nello sviluppo della città e nell’organizzazione sociale: nelle trasformazioni degli ambienti di vita, causa ed effetti si confondono.

L’idea stessa di sostenibilità ovviamente allora non esisteva. Oggi la condizione è diversa, viviamo in un mondo insostenibile ed i temi ambientali ne sono un aspetto rilevante che si accompagna ad altri, gravi, come il crescere delle diseguaglianze.

L’esigenza di sviluppo sostenibile è nel Rapporto Brundtland del 1987. La grande crisi energetica risale a quindici anni prima, quando l’Owershoot day – il giorno nel quale l’umanità ha già consumato tutte le risorse prodotte dal pianeta nell’anno – era inimmaginabile: da allora costantemente si avvicina. Nel 2019 intaccava il mese di luglio, poi – grazie al Covid – un poderoso salto indietro di 15 anni!

Agli stessi anni ’70 risale l’efficace paragone fra i tessuti neoplastici e la visione dall’alto delle periferie contemporanee inserito da Konrad Lorenz fra Gli otto peccati capitali della nostra civiltà: le singole costruzioni, come le singole cellule, si sviluppano senza regole e senza ritegno avendo perso l’informazione che deve tenerle insieme.

Rigenerare la città fu uno strumento sostanziale del governo di Pericle. Oggi la rigenerazione urbana è uno strumento formidabile per convertirsi alla sostenibilità: questione ormai indifferibile. Occorre ragionare sul come.

Presupposto della sostenibilità è l’abbandono della «cultura della separazione»: ha radici lontane ed è andata esaltandosi durante il secolo scorso. Contro il sopravvento delle ottiche di settore oggi è urgente una visione sistemica capace di mettere in relazione ogni cosa e che affermi il passaggio verso la «cultura dell’integrazione», quella che caratterizzerà il nostro futuro.

La «cultura della separazione» ha portato la città ad essere costruita per edifici, magari ciascuno rispettoso delle sue norme, attento però solo a se stesso. Potremmo anche definirla cultura degli egoismi. È quella dello zoning, quella che ha ingombrato i territori rispondendo alla domanda di case, scuole, chiese, fabbriche e via dicendo; a volte ha soddisfatto gli standard (grande conquista: da tempo però insufficienti). La «cultura della separazione», dando diretta risposta a singoli problemi, ha creato problemi più grossi ed inestricabili di quelli che andava ingenuamente risolvendo. Non basta rispettare regole e standard: occorrono chiarezza strutturale e obiettivi ampi e ambiziosi. Quindi mobilitàrigenerazione urbanaterritorio rurale vanno visti insieme, indissolubilmente insieme: vivono di intrecci inscindibili.

Peraltro raggiungere risultati esemplari non è questione di risorse, né di dimensione. Oslo (reddito 90.000 € pro-capite) e Medellin (reddito 9.000 €, un decimo di Oslo) dimostrano che rigenerazioni virtuose non sono questione di ricchezza, ma soprattutto di visioneorganizzazionecoordinamento. Anche per questo in Italia al PIL è stato affiancato il BES, indice che deriva da serie di indicatori via via più attenti e raffinati. La sostenibilità non è solo ambientale, così come rigenerare non è semplicemente sostituire edifici. È introdurre inedite qualità e relazioni fra le partiNon è rammendare, ma introdurre doni.

La «cultura della separazione» ha fatto sì che per molto tempo i nostri territori siano stati ingombrati da interventi al più rispettosi delle proprie regole interne, al massimo smart buildings (più preciso definirli idiot buildings, termine non offensivo se ne si conosce la radice etimologica: idiota per gli antichi greci era chi non partecipava alla vita collettiva, pensava solo a se stesso ed a propri interessi). Era invece un insulto quello coniato nella seconda metà dell’Ottocento dagli abitanti delle Marolles a Bruxelles: la costruzione del Palazzo di Giustizia sconvolgeva i delicati tessuti di quell’antico quartiere: «faire l’architecte», ignorare le relazioni con il luogo e con i contesti, introdurre un corpo estraneo nel tessuto della città.

Per questo sostengo che – mentre gli archeologiricomponendo frammenti cercano di decodificare il senso complessivo di qualcosa del tempo passato – gli architetti del futuro saranno sempre più impegnati a rigenerare zone urbanizzate cercando di dare senso e qualità a quanto oggi non lo ha perché la costruzione della città contemporanea è andata avanti non disegnando i vuoti, non disegnando lo spazio pubblico e cercando la sua qualità, ma affiancando autonomie.

Le nostre città sono straordinarie: sono nate interpretando morfologia e caratteri dei territori; la loro identità si è via via definita e arricchita attraverso lunghi processi di stratificazione. Una particolare configurazione del suolo, l’ansa di un fiume, la sagoma di un vulcano; un particolare monumento bastavano a far si che gli abitanti della città si riconoscessero in un’identità comune.

Un tempo le città avevano chiari confini fisici che la separavano dalla campagna. Oggi c’è un’overdose di confini amministrativi, per lo più impropri. Per delineare il loro futuro le città devono superare questi confini, affrancarsi da limiti amministrativi o catastali, ragionare su scala ampia: azione difficile, non impossibile, indispensabile. A volte i confini sono monti, fiumi, laghi o elementi naturali. A volte strade o elementi artificiali. Spesso configurano separazioni, ostacoli fisici che producono o rafforzano ostacoli psicologici da trasformare in elementi di unione. Individuare elementi di unioneanche che travalichino i confini amministrativi o catastali, è fra le questioni che possono dare futuro a un territorio.

Un programma di rigenerazione urbana esamina le ragioni dell’insediamento, ne analizza l’intelligenza originaria, quella che affievolendosi ha costretto gli abitanti a incrementare le intelligenze individuali per districarsi in magmi complessi. Un programma di rigenerazione urbana deve ragionare su limiti, barriere, ostacoli che segnano il territorio: da valutare, consolidare o negare. Simultaneamente deve ragionare sulle centralità di varia scala che determinano possibilità o desideri di aggregazione. Immaginiamo corridoi ecologici, continuità del verde, percorso dei venti. Poi legami funzionali dovuti alle percorrenze – autostradali, viarie, ferroviarie, ciclabili, navigabili e così via – che lo attraversano. La realtà di un territorio è alimentata da reti ecologiche e funzionali che prescindono da confini e limiti amministrativi, che rendono possibili e facili le relazioni fra gli abitanti, chi vi risiede e chi vi opera.

Prerequisito è che le reti della mobilità non inquinino l’ambiente, non generino condizioni acustiche fastidiose, siano attente a non sprecare il tempo degli individui. In un Piano di fatto ultimato abbiamo previsto reti di navette ad idrogeno: lunghezza 2 km o poco più, velocità max 14 km/h compatibili con biciclette e bambini, modesti tempi di attesa, unico binario (impegnano poco spazio), fermate frequenti (anche meno di 200 m). Anche da qui la positività dell’elevare densità urbana evitando zoning o aree funzionali distinte: la mixitè è un altro dei caratteri da assicurare nei sistemi edificati.

Ogni Regione ha proprie norme urbanistiche e denominano diversamente gli strumenti di governo del territorio. Nelle nostre esperienze interpretiamo l’acronimo PUC (Piano Urbanistico Comunale) come Piano Umanistico Contemporaneo. La sostenibilità ne è evidentemente requisito, ma non solo nei suoi aspetti ambientali ed energetici.

Ci piace disegnare rigenerazioni che puntino alla città dei pochi minuti che garantisce a ogni abitante la possibilità di raggiungere facilmente a piedi un «luogo di condensazione sociale», un punto identitario -riconoscibile anche per la sua immagine – al quale si rapportino le più semplici funzioni quotidiane. Luoghi raggiungibili anche dalle navette del trasporto collettivo di cui prima, se opportuno connesse a parcheggi di dissuasione ed alla mobilità di scala superiore. Quindi una densa rete di luoghi di condensazione sociale che abbia grande attenzione per le preesistenze, per le loro qualità attuali e per la possibilità d’introdurre nuovi legami e qualità inedite.

Non bastano quindi interventi edilizi nZEBuna somma di edifici sostenibili non determina una città sostenibile. I nostri più diffusi apparati normativi derivano dalla cultura funzionalista, supporto della «cultura della separazione». Occorrono normative diverse, semplici, prestazionali, che esprimano la «cultura dell’integrazione». Molto distanti dalle attuali.

La rivoluzione dei mezzi di trasporto e la maggiore quantità degli spazi costruiti a disposizione di ciascuno, non solo come residenza, ha fatto sì che le città si siano andate dilatando, che si siano costruite periferie caratterizzate da recinti monofunzionali e assenza di monumentalità. Gli apparati normativi regolano tutto: la coincidenza fra limiti di superficie coperta, altezza, cubatura, superficie lorda, favorisce soluzioni scatolari ed edifici autonomi. Occorre invece ripartire dallo spazio pubblicoconsiderare ogni intervento edilizio non nella sua autonomia bensì come frammento di un insieme ampio, ragionare sui dialoghi fra le parti. Recuperare l’esistente a parità di cubatura non ha senso: la potenzialità edificatoria va misurata in termini di superficie utile netta, quella che ha valore economico e significato urbanistico. Non occorrono deroghe: è indispensabile cancellare le regole attuali dando spazio a un diverso modo di ragionare.

Allora basta con le autonomie. Hanno radice nella triade vitruviana – Utilitas / Firmitas / Venustas – punto fermo finché la popolazione nella penisola non era che un quarto un terzo dell’attuale. Allora il costruito appariva ancora come «seconda natura finalizzata ad usi civili». Questa triade è alla base dell’autonomia dell’architettura, rispondeva a altre istanze, ovviamente ignorava questioni energetiche, ambientali e climatiche. Oggi le condizioni sono molto diverse, abbiamo bisogno di molti più metri quadri pro-capite che non in passato. Poi siamo sempre più nomadi, grazie all’informatica viviamo simultaneamente più realtà, ci spostiamo anche fisicamente con grande facilità.

continua

immagine: le tre torri della Piazza di Fuorigrotta

 

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  • vorrei capire meglio quando tratti dei smart buildings e trovo interessante quando dici: “più preciso definirli idiot buildings, termine non offensivo se ne si conosce la radice etimologica: idiota per gli antichi greci era chi non partecipava alla vita collettiva, pensava solo a se stesso ed a propri interessi”. Forse è il caso di precisare che una smart city non si compie senza smart community?

  • M’interessa mettere a fuoco questo passaggio in cui dici la mixitè è un altro dei caratteri da assicurare nei sistemi edificati. Cosa è la mixitè?

  • lucalongu     smart building è emblematico di isolamento, la città è connessioni, relazioni  ….  una città intelligente è ben vissuta da una comunità intelligente. Ma le città attuali sono per lo più accumuli di autonomie, ambienti invivibili e patologi. Si sono andate instupidendo ed impongo grande intelligenza per poter essere usate. Le tecnologie aiutano certo, ma un groviglio inestricabile e paralizzante non è tollerabile, non bastano tecnologie intelligenti …
    teatron           “mixitè” sineticamente rinvia ad un insieme di funzioni: così è sempre stata la città, prima che separazioni funzionali e recenti non l’avessero distrutta individuando zone residenziali, zone per affari, zone per ……. C’è esigenza di vita ordinaria, rapporti facili, distanze brevi per qwunto possibile: “città dei pochi minuti” (a piedi, o con sistemi di accelerazione pedonale  …)
     
     

    • @massimo-pica-ciamarra giusto, non bastano le tecnologie intelligenti. Come sai da decenni m’interrogo su come rendere più performante la cittadinanza attiva, operando con i format di performing media per l’innovazione territoriale.

      Il pensiero-azione architettonico ha bisogno di smart community, creando le condizioni di co-progettazione che vadano oltre le liturgie stanche dei tavolini da bridge partecipativo (si, sono ormai un gioco di società, buoni per diventare la foglia di fico di governance ipocrite…).

      In questo link https://www.urbanexperience.it/format/ si tratta di questi format di urban experience

      dovremmo iniziare ad interagire dopo tre decenni di conoscenza

      no?

  • Ho conosciuto Pica Ciamarra studiando Riccardo Dalisi un altro grandissimo ovviamente molto conosciuto all’estero quanto poco in Italia. Da lui ho imparato la reale lezione tra immaginazione e partecipazione, che in parte abbiamo provato a tradurre (e perseveriamo) in VuotidiSenso dal 2016. Lo scritto di Pica Ciamarra è estramemente interessante. Ne condivido in parte le posizioni. Sono anni che mi batto sulla necessità di superare la cultura della separazione (tanto da scomodare l’attrazione per simpatia della materia e più in generale, una biforcazione della conoscenza, dalla rivoluzione scientifica in poi, volutamente lasciata in disparte). Non è tanto (credo) lo zoning il “male “ da abbattere (che nasce da sempre come forma di organizzazione dello spazio e accelera con la rivoluzione industriale, e la rottura dei limiti, escludenti, delle mura). È il Territorio (a cui lo zoning è ovviamente legato, e non da oggi), come semplificazione di natura privativa che isola (luoghi distinti non per tutti) e nega l’insieme magmatico e differenziato di cui è fatta una città. Produce esclusione. Il Territorio (forma propria di una relazione spazio-tempo lineare) si sovrappone alla Terra. La Varietas può ancora rappresentare la chiave per esprimere la diluizione del concetto di territorio in una sempre maggiore frammentazione per effetto di luoghi e comunità marginali in aumento. Nuovi nodi di un sistema che abita come un’infrastruttura a partire da quanto si svela negli interstizi urbani. Tanti e molti attraversati in questi anni a Roma e dai quali partire come occasione di esercizio della crisi prodotta dalla pandemia (che non è certo esercizio dei “15 minuti” o di boschi e boscaglie verticali dai quali vogliamo stare lontani, il lusso non è certo design come a ragione sosteneva Munari) ma assume un significato di trasformazione e mutamento legato alla Natura che contiene in se uno stato di deterioramento di una condizione e che non può rimandarci a una nostalgia greca. Atene è luogo di guerra, spazio pulito e centrato del Territorio.

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